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Una stazione abbandonata

Una stazione abbandonata

Una stazione abbandonata nel nord Italia.

I treni non si fermano più, ma i binari sono rimasti immutati dal 1938. In quell'anno, una ragazza aspettava con la sorella maggiore proprio su questo binario. Per alcune famiglie disperate, era l'epoca in cui i giovanissimi lavoratori venivano inviati in Germania. Là cercavano ardentemente manodopera straniera in cambio di un compenso. Il loro disegno bellico si sarebbe chiarito solo un anno più tardi...

Immagino la sua paura a quattordici anni e quella di sua sorella, di soli tre anni più grande. Non hanno mai lasciato il loro paesino e questa stazione è a decine di chilometri dalla loro vita, dal loro mondo. Praticamente è una terra straniera, anche se in apparenza è la stessa, e il dialetto veneto, l'unica lingua che parlano, qui è già leggermente diverso.

Eppure il legame con la terra della loro infanzia è ancora palpabile, anche solo attraverso i caratteristici campanili veneti. L'atmosfera cambia quando, timidamente, entrano nella carrozza: è la prima volta anche per loro, affollata di giovani che sembrano tutti più adulti.

Di già, accompagnato da cigolii quasi premonitori, il treno inizia la sua corsa verso il lungo rettilineo che avevano osservato per decine di minuti dal binario. Abbozza una curva a sinistra, il balzo verso l'ignoto è ormai certo, senza scampo. Poi si profila il Passo del Brennero, l'Austria è diventata tedesca da pochi mesi dopo l'Anschluss. È inutile voler descrivere l'atmosfera che si respira nella carrozza strapiena: tutti cercano di rassicurarsi a vicenda, alcuni addirittura cantano. Sono convinti che il contributo economico alle loro famiglie restituirà una forma di dignità, che si perde inevitabilmente quando l'ossessione è quella di placare la propria fame in ogni momento.

Riguardo ai primi anni, estenuanti per chiunque, e ancor più per le ragazze adolescenti che dovevano lavorare in enormi complessi agricoli, non c'è nulla da dire; sul resto non si può dire nulla.
L'indicibile diviene normalità, dal lavoro nei campi alle postazioni itineranti con l'esercito tedesco. Scavare la terra, non per coltivarla ma per ottenere trincee che consumeranno vite e assorbiranno il loro sangue. Questo sul fronte orientale, in Silesia. Da lavoratrici volontarie, divennero prigioniere (con il seno fasciato per non attirare l'attenzione) per la causa del Reich. Trentasei mesi di infamia, più altri tre con i russi, che dovevano decidere la sorte dei loro prigionieri (le pianure dell'Ucraina o il ritorno nella madrepatria).

Di tutte le domande dolorose che si pongono, la più difficile non ha nulla a che vedere con la follia che ha infiammato la Germania. Come hanno potuto i genitori, una società, uno Stato, una religione, mandare dei (quasi) bambini oltralpe in quelle condizioni? Senza nessun legame in loco? Senza conoscere la lingua?

Perché le ragazze piuttosto che i loro fratelli?

Naturalmente, lo Stato italiano ha commemorato (dopo aver incoraggiato le partenze) con un monumento, collegato alla stazione abbandonata, il glorioso ritorno dei prigionieri e dei deportati in questo luogo. Se si guarda bene, l'impressione che sia stato concepito per non richiedere nessuna manutenzione è palese: l'Italia non cambia mai...

Il nome di questo villaggio è Pescantina. Il famoso scrittore Primo Levi transitò di qui al ritorno dai campi dell'orrore, così come mia madre.

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